Licenziati da un algoritmo. Il ricorso dei guidatori contro l’automated decision making di Uber

giovedì 10 dicembre 2020

Licenziati da un algoritmo. Il ricorso dei guidatori contro l’automated decision making di Uber

La nota azienda, leader nel settore dei servizi automobilistici privati tramite applicazione mobile, è chiamata ad affrontare una nuova battaglia legale di fronte ai giudici olandesi, dove Uber conserva i dati, per aver licenziato alcuni autisti attraverso l’utilizzo di un algoritmo.

Il ricorso sarà la più importante controversia europea sull’applicazione dell’Art. 22 GDPR e può rappresentare l’occasione per il consolidamento di una giurisprudenza unitaria su una tematica di grande attualità.

Il caso

Il sindacato britannico dei corrieri e degli autisti di App ADCU, in rappresentanza degli autisti di Uber, ha impugnato di fronte ai tribunali olandesi i licenziamenti intimati dall’azienda, lamentando una violazione del diritto degli interessati a non essere sottoposti ad una decisione fondata unicamente su un trattamento automatizzato, senza alcuna partecipazione umana al processo decisionale.

Già balzata agli onori della cronaca nel maggio scorso per aver comunicato a 3.500 dipendenti la cessazione del rapporto con una videochiamata di tre minuti sulla piattaforma Zoom, Uber non è la prima azienda ad essere accusata di intimare licenziamenti adoperando esclusivamente i dati elaborati da un algoritmo. Nell’aprile 2019 a finire nell’occhio del ciclone era stata Amazon, che per stessa ammissione dei propri legali, aveva confermato l’impiego nei propri stabilimenti di un algoritmo strutturato appositamente per misurare la produttività dei dipendenti tramite una serie di variabili (tra cui il “time off task”, ovvero le pause di lavoro), e adoperato, secondo le accuse, quale unico criterio di riferimento per individuare i lavoratori da licenziare.


Algoritmi e rapporto di lavoro: una convivenza difficile

Nell’era digitale, la tecnologia riveste un ruolo essenziale nelle dinamiche socio-economiche, al punto da rappresentare il terzo (spesso) incomodo in un rapporto tra datore e lavoratore tradizionalmente concepito in termini duali. In tal senso, la riforma della disciplina dei controlli a distanza (art. 4 Statuto dei Lavoratori) operata dal c.d. Jobs Act ha offerto una risposta parziale, non considerando che ad oggi il controllo dei lavoratori può essere realizzato anche tramite lo sfruttamento dei loro dati personali, ricavabili da piattaforme esterne all’ambiente lavorativo e per finalità prive di qualsiasi collegamento strumentale con la prestazione.

Le lacune della disciplina lavoristica sono state (in qualche modo) colmate dal legislatore europeo, che nel GDPR ha individuato un punto di equilibrio tra il rispetto della riservatezza dei dipendenti e l’interesse datoriale all’efficienza dei processi aziendali. Infatti, se da un lato il dipendente è garantito dal fatto che il suo consenso non può valere come base giuridica per ogni trattamento di dati personali, dall’altro si ammette il trattamento necessario al legittimo interesse aziendale, a condizione che siano adottate misure organizzative idonee a garantire la trasparenza del trattamento e l’esercizio dei diritti da parte del lavoratore.

Pertanto, alla luce di questa ricostruzione, quali sono le implicazioni in tema di protezione dei dati personali del licenziamento “robotico” di un dipendente?


Cosa si intende per “decisione basata unicamente su un trattamento automatizzato”

Sul punto, l’art. 22, par. 1, GDPR sancisce esplicitamente il diritto dell’interessato a “non essere sottoposto ad una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona”.

La nozione, da interpretare in senso sostanzialistico in modo da ricomprendere entro la sfera di operatività del divieto anche quei processi automatizzati in cui il contributo umano sia artefatto o irrilevante ai fini dell'assunzione della decisione finale, individua una proibizione generale in capo al titolare del trattamento, automaticamente applicabile al di fuori delle ipotesi derogatorie previste al paragrafo 2 dello stesso articolo.

Le tre deroghe individuate, funzionali ad assicurare al titolare margini di flessibilità nelle scelte di gestione dei trattamenti, consentono il ricorso ad un processo decisionale automatizzato nei casi in cui la automated decision:

  1. sia necessaria per la conclusione o l’esecuzione di un contratto tra l’interessato e il titolare del trattamento;
  2. sia autorizzata dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento, che precisa altresì misure adeguate a tutela dei diritti, delle libertà e dei legittimi interessi dell’interessato;
  3. si basi sul consenso esplicito dell’interessato.


Il “right to explanation” dell’interessato

Tuttavia, è evidente che il consenso dell’interessato sia uno strumento palesemente inidoneo a garantire un’effettiva tutela, specialmente laddove impiegato per normare ambiti complessi, quali l’impiego di algoritmi nell’ambito di un processo decisionale interamente automatizzato, in cui l’insufficiente patrimonio conoscitivo della parte debole non consente un’effettiva libertà di autodeterminazione informativa.

Consapevole di ciò, il legislatore europeo impone al titolare del trattamento l’attuazione di una misura appropriata minima, ovvero il diritto dell’interessato “di ottenere l’intervento umano, di esprimere la propria opinione e di contestare la decisione” (art. 22, par. 3, GDPR). Questo “right to explanation”, enunciato compiutamente al Considerando 71 del Regolamento, tuttavia, sembra operare esclusivamente ex ante rispetto all’adozione della decisione, come “diritto dell’interessato a ricevere chiarimenti sulle modalità operative del processo automatizzato”.

D’altro canto, alcuni commentatori hanno evidenziato come la norma sia suscettibile di una lettura costituzionalmente orientata, alla luce delle garanzie previste agli artt. 8 - Diritto al rispetto della vita privata e familiare - e 14 - Divieto di discriminazione - della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, che andrebbe ad individuare, in ogni contesto caratterizzato dall’impiego di processi automatizzati aventi un impatto significativo sulle decisioni individuali quotidiane, un diritto alla spiegazione umana, quale elemento irrinunciabile ai fini dell’effettività del “right to a human decision”.

La decisione dei giudici olandesi, chiamati a decidere tra una lettura restrittiva e un’interpretazione “umano-centrica” della fattispecie, è attesa con particolare interesse, in quanto potrebbe rappresentare il punto di partenza per la formazione di un orientamento giurisprudenziale condiviso sul tema.


Dicembre 2020

Avv. Victoria Parise – partner di The Legal Match - & dott. Lorenzo Pierini